IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 178/1997 contro Scalisi Vincenzo, nato a Catania il 16 gennaio 1937 imputato di emissione di assegni a vuoto. All'udienza odierna imputato e pubblico ministero hanno concordato l'applicazione di una pena. Con sentenza dell'8 maggio 1996 le sezioni unite della Cassazione penale, confermando un orientamento giurisprudenziale e dottrinato diffuso, hanno deciso che la sentenza colla quale il giudice applica la pena concordata dalle parti (art. 444 c.p.p.), non essendo emessa a seguito di giudizio, non e' sentenza di condanna nel senso che non accerta ne' la fondatezza dell'accusa ne' la colpevolezza dell'imputato. L'equiparazione della sentenza in esame alla sentenza di condanna (stabilita dall'art. 445 c.p.p) non varrebbe quindi a far ritenere l'imputato colpevole del reato. Pertanto, secondo questo orientamento consolidato, da ritenersi ormai diritto vivente, il giudice dovrebbe applicare la pena concordata senza esser certo che l'imputato sia colpevole (ossia autore responsabile) e addirittura senza esser certo che il fatto-reato esista o meno. Trattasi, ad avviso di questo giudice, di una concezione aberrante sia sul piano etico che giuridico, perche', scindendo pena da responsabilita', vulnera il principio fondamentale del diritto penale secondo cui non puo' esserci applicazione, di pena (cioe' condanna penale) senza accertamento di responsabilita'. Tale principio, nella Costituzione, trova espressione nell'art. 27 laddove si dispone che la responsabilita' penale e' personale e che l'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva: infatti dal complesso di dette norme si ricava la correlazione necessaria tra pena e responsabilita'. Oltretutto, ritenere che il giudice possa applicare una pena a una persona senza essere moralmente certo della sua colpevolezza significa mortificare la funzione giurisdizionale, riducendola a un ruolo meramente notarile. Ed e' per questa ragione che la Corte costituzionale colla sentenza n. 313 del 1990 ha ammesso che il giudice possa valutare la congruita' della pena concordata. La questione di costituzionalita' sollevata da questo giudice non investe l'istituto nel suo complesso, poiche' il giudice ha la possibilita' di pervenire alla certezza morale della colpevolezza dell'imputato patteggiante sia sulla base della stessa richiesta di applicazione di pena (che comporta una implicita ammissione di responsabilita') sia sulla base degli atti (cosi' come dispone espressamente l'art. 444 secondo comma c.p.p.); ma investe la funzione della sentenza, che secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale non comporta accertamento di colpevolezza dell'imputato neppure nel limitato ambito nel processo penale nel quale la sentenza e' stata pronunziata non ritenendosi la richiesta di patteggiamento come ammissione di responsabilita'. Si ritiene, pertanto, non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevede che, nell'applicare la pena, il giudice dichiara l'imputato colpevole del reato attribuitogli, ovverosia (piu' semplicemente) nella parte in cui non prevede che il giudice su richiesta delle parti "condanna" l'imputato alla pena concordata dalle parti.